Il personal branding nell’epoca del digital storytelling
Capita sempre più spesso che in contesti ‘analogici’ – dal bar sotto casa all’aula dell’Università, passando persino per gli uffici di quell’Amministrazione Pubblica che sui propri computer d’ufficio monta ancora Windows 98, – che qualcuno si riempia la bocca di termini altisonanti, anglofoni, annoda-lingua, come per esempio ‘inbound marketing’, ‘content management’ e (ciliegina sulla torta) ‘personal branding’.
Il namedropping – ops, volevo dire ‘quella pratica di citare continuamente termini che appartengono a un lessico specifico, oltre che i nomi di personaggi di riferimento di quell’ambito nel quale si agisce’, – è spesso uno dei primi segnali che ci troviamo di fronte qualcuno un poco disorientato, a volte addirittura spaventato. Qualcuno che magari si nasconde dietro tutte quelle parolone e che ci vuole vendere qualcosa che forse abbiamo già. Più semplicemente, qualcuno che vuole per forza dimostrarci che sa quello che fa.
Ecco, l’unico problema che sorge, allora, è che per dimostrare di saper fare qualcosa – anche nell’epoca digitale, – bisogna fare, non certo dire d’aver fatto, o dire e basta.
Parlare non basta, bisogna parlare dopo aver agito. Parlare di personal branding, per esempio, può essere per alcuni un pessimo personal branding… ma andiamo con ordine.
Il personal branding non è ‘una pratica’ e non è nato ieri, non è nato come dicono alcuni manuali negli anni ’90, col famigerato articolo di Tom Peters, né negli anni ’80 col saggio di brand management di Ries, né prima ancora, con le centinaia di migliaia di pagine motivazionali ascrivibili al campo della cosiddetta ‘crescita personale’, dai mitici ‘Seven Steps’ di Covey fino a una certa PNL mutuata dai ben noti Bandler e Grinder. Niente di tutto questo. O meglio, non solo questo.
Quanto namedropping ho fatto fino adesso?
Il personal branding nasce con l’uomo, quando il mercato – l’insieme della domanda e dell’offerta, se proprio vogliamo rifarci alla definizione scientifica – trascendeva l’utilizzo dei media digitali, quando la word of mouth era veramente detta dalle labbra del comunicatore di turno e il buzz che si poteva sentire era quello delle zanzare attorno al falò.
È dall’alba della società, dai tempi di Omero, che l’uomo si vende all’uomo ‘raccontando le proprie gesta’. Esattamente: proprio come nel Proemio dell’Iliade quando si dice:
Cantami, o Diva, del Pelìde Achille l’ira funesta che infiniti addusse lutti agli Achei…
Il poeta chiede l’intercessione delle Divine Muse per raccontare quello che fecero altri uomini ‘eletti’.
Questi racconti, oltre a rappresentare straordinari capolavori della narrativa e della poesia, erano spesso costruiti per raccontare l’origine di una famiglia, di un leader sociale, di uno Stato o di una Chiesa che li commissionava. Avevano lo scopo di emozionare il pubblico e di renderlo partecipe alle gesta dell’eroe, di portarlo dalla parte del protagonista e di farselo ‘piacere’, al punto da volerne sapere di più, da volerlo prendere per modello, da stimarne i famigli, i pronipoti, i legati, tanto da farsi governare da essi senza osare (per un po’ di tempo è stata una strategia vincente) volere di più.
Quanti personaggi poi hanno avuto bisogno di raccontarsi diversamente (o alternativamente) da com’erano? Quanti hanno cercato di farlo unendo – per così dire, – la loro buona fede e il gusto per un buon racconto? Quanti si sono fatti cantare, ritrarre, scolpire? A cosa serviva tutto questo oltre a essere di per se un indice di ricchezza e di controllo sul proprio mondo?
Facile. Serviva a creare una buona reputation. Una reputazione efficace in grado di anticipare l’arrivo di questi ultimi in un determinato luogo o in un determinato campo di battaglia, al tavolo di una trattativa come sul letto del matrimonio.
Reputation. Pensate solamente ai nickname che usavano: Lorenzo il Magnifico, Riccardo Cuor di Leone, Filippo il Bello, la Lady di Ferro…
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Dove voglio arrivare?
Il personal branding non è alla portata di tutti, a meno che non si trovino le risorse giuste per esprime sé stessi al meglio senza poeti, pittori e scultori in grado di farci più belli, più duri o semplicemente… più professionisti.
Il mondo in cui viviamo ci ha dotati di strabilianti strumenti di comunicazione e fino a poco tempo fa bastava utilizzarli per ‘esserci’, ora che questi mezzi sono sempre più alla portata di tutti, bisogna saperli selezionare e bisogna sapere cosa dire attraverso di essi. Il digital storytelling ci ha insegnato che tutti possiamo diventare come Achille e come Omero, aiutati da una giusta dose di studio del mezzo e della modalità del nostro contenuto. Ma una cosa fondamentale non dobbiamo dimenticarla. Possiamo migliorare la realtà, non possiamo inventarcene una di sana pianta. Quindi bisogna prima capire bene cosa si è, cosa si vuole fare e per chi. E solo dopo, bisogna raccontarsi.
Girare un video con la propria GoPro mentre si va a fare la spesa non vi renderà una cantante migliore, fare una serie di scatti un po’ hipster sul vostro profilo di Instagram non farà di voi degli architetti all’ultimo grido, scrivere status pieni di doppi sensi sessuali per elemosinare ‘like’ dai più maliziosi non rafforzerà le vendite del vostro nuovo libro-inchiesta sul lavoro minorile. Ogni mezzo va usato per raccontare quel che s’è fatto al meglio. Per rafforzare il nostro ‘buon nome’, proprio come facevano i grandi popoli dell’antichità. Perché il racconto ha un grande potere solo quando ci si prende la responsabilità di rappresentarlo.
Siate, dunque raccontatevi!
Peace.
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